LA SPERANZA SI NUTRE DI SILENZIO

Attualità

1 Luglio 2020

“In più di 70 anni non avevo mai vissuto un silenzio così intenso». Nei mesi del lockdown tutti abbia­mo percepito un silenzio inedito, ma fa un certo effetto sentir pronuncia­re queste parole da madre Ignazia Angelini, 76 anni, dal 1964 monaca benedettina all’abbazia di Viboldo­ne (MI). La pandemia ha bussato forte al monastero alle porte di Milano, col­pendo alcune consorelle e metten­do alla prova, con la sua crudezza, l’intera comunità. Ora che il peggio è passato (le religiose sono ancora in isolamento ma la situazione va mi­gliorando) madre Ignazia guarda a quanto vissuto con serenità: “E’ stato un corpo a corpo con la Parola, ho scoperto – ancor più profondamen­te – la grazia della fraternità gratui­ta”. E proprio alla religiosa, badessa di Viboldone per più di due decenni (ha consegnato le dimissioni lo scor­so anno per raggiunti limiti di età), chiediamo che cosa abbia da dirci l’esperienza del silenzio.

Durante il lockdown il silenzio ha fatto capolino anche nelle me­tropoli. Che silenzio è stato?

«Il silenzio che ha riempito le stra­de e le case – anche i monasteri, che pure sono allenati al silenzio – è sta­to pieno di smarrimento e doloroso stupore. In questo sgomento emer­geva nitida una crisi epocale che da tempo si annunciava, pur rimossa. E il silenzio ha spinto a cercare pre­ghiera, ascolto del parlare – o del ta­cere – di Dio. Ascolto anche in chi non vi era avvezzo. Certo è che la società chiassosa e chiacchierona si è fermata interdetta. Anche se non è mancato il vociare, nell’agorà della rete, di sentenziosi discorsi. Il silen­zio delle città è stato alto grido, per chi vuole intendere».

Lei che cosa ha sentito in que­sto silenzio?

«Ho percepito anzitutto la mia mortalità e, insieme, ho sentito risuo­nare in me la voce dell’appartenenza all’umanità, corruttibile e mortale. La forza della parola di Dio comunque proclamata nelle nostre celebrazioni domestiche, e letta assiduamente nei giorni e nelle notti, è potuta risuona­re con nitido suono e scolpirsi indele­bilmente nella carne… Nei giorni più duri ho avvertito la necessità di stare in silenzio per capire: nulla più era scontato. Sentivo la necessità di fer­marmi di fronte a qualcosa di troppo forte, che minava tutte le sicurezze. Ho percepito, un giorno, che poteva scomparire la comunità per la viru­lenza del contagio. Il primo impatto, devastante per noi, è stato duro, ma non privo di una profonda pace. Ca­pivamo che bisognava predisporsi a radicali cambiamenti. A smettere di avere fretta, di fare programmi. Che era tempo di riconoscere tante false sicurezze, anche su realtà sacre ma coperte di croste ideologiche: pen­so alle celebrazioni e alle iniziative culturali, ad esempio».

Eppure voi monache eravate avvezze al silenzio…

«Il monachesimo benedettino è una pedagogia di vita basata su un’e­sperienza fondamentale: aprirsi all’a­scolto. Ed è in funzione dell’attenzio­ne richiesta dall’ascolto che il silenzio ha tanta importanza in monastero. Non è un valore in se stesso, se non che è vissuto come attesa e condizio­ne della nascita del linguaggio, della comunicazione vera, essenziale. Non è però automatico che una monaca benedettina viva il silenzio. È un pro­cesso propiziato da pratiche: la no­stra quotidianità è scandita da lavoro, preghiera, lectio divina e dal grande silenzio, che va dalla Compieta alla mattina successiva. Inizialmente stare tutta la notte senza parlare pesa, ma poi si scopre il silenzio come una lunga scuola, in cui nascono le esperienze più forti».      -1

Nei giorni più bui che domande sono sorte nei vostri cuori?

«Domande prima mute, perché la pandemia è stata una bufera che si è abbattuta severamente su di noi, to­gliendoci la parola. Poi si è articolato l’interrogativo, almeno nel segreto del cuore: che cosa ci dici, Signore, a che cosa ci prepari, che cosa vuoi da noi? È certamente stata una bu­fera, che speriamo si evolva – attra­verso attenta pazienza e meditazio­ne – in crisi feconda. Ci siamo sen­tite come messe a tacere: il minimo di riti, zittito il canto, scandivano i giorni più duri il silenzio e la solitu­dine. Ci siamo riscoperte come cenacolo di povere donne, radunate e sostenute unicamente dalla fedeltà di Dio. Nella sobrietà e nudità dei ritmi imposti dalla situazione, abbia­mo però riscoperto l’essenzialità del rito, la bellezza di custodire il luogo dell’Assenza – specialmente in rap­porto all’Eucaristia – senza cercare surrogati. Adesso l’importante è non perdere la provocazione. Personal­mente ho ascoltato una seconda (o terza, chissà…) chiamata all’età adul­ta, non un “ritorno in Egitto”, alle vuote stabilità di prima. È come la cruna dell’ago per le “ricchezze” di un’epoca troppo sicura di sé: ci tro­viamo di fronte all’ “Aperto” che già s’intuiva».

Nella sua esperienza cos’è il silenzio?

È quel grembo di spazio e tempo aperti all’attesa, scavato nel cuore, grembo intessuto dal desiderio radicale di ascoltare Altri. Ma all’inizio, io credo in base al vissuto da monaca, silenzio è conversione: “Sto in silenzio, no: apro bocca: sei tu che agisci” (Salmi 39,10). Dinanzi ad Altri, all’evento che mi sorprende e destabilizza significa spogliarsi di parole vane rifiutare volontà di potenza e menzogna, stare in attenta attesa. Per un; monaca silenzio è la sfida e la passione di una vita, più che caratterizzarsi per momenti straordinari».

Il silenziò è un lusso o un bene essenziale?

«Come ogni bene essenziale, il silenzio diventa un lusso nella sua versione spuria, quando è ottuso, chiusura su di sé, vuota ricerca di un benessere spirituale. È un bene necessario se – com’è nella sua na­tura – custodisce il luogo dell’Assen­za, genera e cura la vita, la parola vera, il legame, a partire dalla veri­tà del cuore».

Ora che il mondo ricomincia a correre alcuni vorranno tenersi stretto il silenzio. Ha suggerimenti?

«Quando qualcuno chiede di sostare in monastero per vivere il silenzio, facciamo subito presente che servono almeno tre giorni: nel primo si ascolta cosa si muove nel proprio cuore, dove abitano le voci più rumorose; nel secondo si ascolta la Parola, al terzo giorno si può gustare la Parola che parla. San Benedetto diceva che l’ospite va condotto a leggere insieme la Parola: se scopri la Parola come presenza, ecco che nasce il desiderio di ascolto. Aggiungerei poi che il silenzio non nasce da luoghi suggestivi, o tanto meno rilassanti. Certo alcune affinità elettive possono aiutare l’interiorità a ritrovare l’ar­monia con l’esteriorità, e questo è il terreno del silenzio. Ci si può predi­sporre attraverso la presa di coscien­za lucida e umile dei pensieri cattivi e vani che agitano il cuore. Mi chie­de se è consigliabile vivere il silenzio personalmente o in comunità… Eb­bene, non sono gli altri che fanno la differenza ma la purezza di cuore».

Quali sono i suoi maestri del silenzio?

«II Maestro fondamentale è Gesù, con i suoi trent’anni di silenzio su tre di predicazione; con le sue brevi pa­role intessute di silenzio, e i suoi lun­ghi silenzi. Con il suo stile: ogni sua parola rimanda al non detto, nasce dal silenzio, e perciò richiede profon­do silenzio. Poi trovo maestra Maria che, dopo aver detto il suo sì alla Parola e aver cantato la sua meraviglia grata, ha lungamente portato in cuore parole che non comprendeva appie­no, ma sentiva che andavano custo­dite insieme. Ma ho ricevuto anche tanto insegnamento dai padri della fede: Abramo nel suo tragitto verso il Moria; Elia profeta, che ha incon­trato Dio nel mormorio di un silen­zio scavato… tutte le Scritture sono scuola al silenzio. San Benedetto nella sua piccola Regola per principianti mi ha insegnato a cercare in verità il silenzio non vano, cioè non auto-centrato. Poi tantissimi altri, anche autori moderni, che non è possibi­le enumerare. Infine, e soprattutto, mi è stata maestra suor Maria Marti­na, una di noi, incaricata della cura degli uccelli e dei fiori e di assistere le sorelle inferme: donna semplice e limpida, mi è stata fino alla morte vivente cattedra del silenzio».

Qual è il legame fra il silenzio e la preghiera?

«Silenzio e preghiera non coinci­dono, perché la qualità orante del si­lenzio dipende dal suo rapporto con la Parola. C’è un silenzio che non è preghiera ma puro vuoto, se non ge­nera relazione. Mentre la preghiera, come apertura alla trascendenza, non può mai essere senza silenzio. Anzi, la preghiera cristiana, come io capi­sco, non è altro che ascolto del pre­gare di Gesù – dunque, la sua anima è tutta silenzio».

Spesso il silenzio affascina ma, altrettanto di frequente, spaven­ta. Come mai?

«Spaventa, sì. E diventa peso in­sostenibile se uno non elabora spi­ritualmente la paura del vuoto, lo sgomento della solitudine, l’angoscia della morte. Attraverso la lotta inte­riore contro i pensieri che affollano la mente, il silenzio diventa “amico” quando apre alla relazione. Se dal si­lenzio come stato fisico e psichico, materiale assenza di parola, non si passa a interiorizzare questo vissu­to, allora sgomenta e atterrisce. Ma attraverso lo stupore il silenzio si fa luogo di nascita del linguaggio».

Le è mai capitato di rifuggire il silenzio?

«Sì, certo. Si può dire che è una tentazione quotidiana: quando, pre­si dalla paura della propria miseria o dalla incomprensione dell’altro, si smarrisce la pazienza umile e genera­tiva che trasforma il silenzio in attesa, conversione, esposizione al gratui­to ed esigente venire della Parola».

Come si guarda in avanti dopo la pandemia?

«Il trauma della Prima guerra mondiale fu un fallimento (gli anni venti). La Seconda guerra, pur nel trauma, generò un “nuovo”. E in noi, il dopo- pandemia che sarà? speranza non è mai un generico ottimismo. Si nutre di silenzio, di ascolto reale, non ideologico. Oggi si tratta di recuperare la capacità, umile e concreta, non ideologica ma credente, di sognare e di aver visioni, come scrive il profeta Gioele. Da parte mia ho capito l’importanza della responsabilità, personale e comunitaria, a maturare nuovi stili di vita. Ho riscoperto la forza di resistere: in questi mesi di inazione si è visto che crescita non significa correre e accelerare. Ancora, il prendersi cura èla base della sostenibilità. Altre parole chiave: interdipendenza, confini, ma non sigillati bensì in rapporto con altri. Questi ragionamenti, e tanti altri, sono germogliati dal silenzio di questi tre mesi».

Madre Ignazia Angelini, Abbadessa emerita del monastero di Viboldone (MI) 

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