I giovani, la fede, il futuro

Attualità

21 Giugno 2021

Esercizi di discernimento nel tempo della pandemia

di Paola Bignardi

Introduzione

Il titolo di questa relazione chiede di mettere in relazioni tre soggetti che in questa fase della vita del mondo stanno tra di loro in un rapporto problematico: i giovani, la fede, il futuro.

La pandemia che stiamo vivendo orami da un anno rende ancora più complessa la relazione tra i giovani e la fede, tra i giovani e il futuro; ha soprattutto reso difficile per i giovani guardare al futuro con fiducia, e i significati della vita sono stati tutti toccati, costringendo ad una rielaborazione impegnativa e importante.

Ogni tanto si sente dire che “niente sarà più come prima”. La pandemia è un fenomeno che costituisce quasi uno spartiacque nella vita delle persone. Ed è così a maggior ragione per i giovani, quasi sorpresi dalle dimensioni umane impreviste che hanno incontrato dentro questa esperienza. Il loro modo di rapportarsi alla realtà, di vivere le relazioni, di guardare al futuro è cambiato. Il Covid sembra costituisca una frattura generazionale: nuovi modi di guardare il mondo, di vivere le relazioni, di pensare il futuro.

Il Covid ha avuto un forte impatto emotivo sui giovani, soprattutto nella scorsa primavera; è un’esperienza che ha suscitato molte riflessioni, revisione della propria vita, delle sue priorità, del suo senso. Nel ripensamento indotto dalla situazione, vi è chi spera che questo porti a guardare agli altri e alle loro difficoltà con empatia, qualcun altro si interroga su che cosa può fare personalmente¸ la maggior parte si sente più incerta sul proprio futuro. La morte si è imposta come una parola nuova sulla vita, e induce a vivere con maggiore intensità la vita stessa. Per questo assumo come punto di riferimento di questa riflessione il modo con cui i giovani stanno vivendo la pandemia.

1. Giovani e futuro[1]

Dopo la pandemia i giovani guardano al futuro con maggiore apprensione e incertezza.

Ecco una testimonianza in questo senso: “La morte ti fa capire che si può morire. Pensare questa cosa cambia la prospettiva, si pensa sempre che si ha più tempo per fare le cose, per stare vicini. Io sono proiettato sul mio progetto, mi devo realizzare, devo fare questo, quest’altro e poco al noi. La morte abbassa questa cosa, ti dice: “guarda che il morire c’è, può capitare anche a te domani, non c’è altro tempo. Se tu domani morirai non avrai altro tempo. Cadrà un po’ tutto quello che ti sei costruito e rimarranno solo le cose importanti veramente, il tempo passato in famiglia, passato ad aiutare le persone alla Caritas…. Cambia la prospettiva. Sai che nella vita normale ci sono dei tempi. Se si arriva a considerare la morte, cambiano tante prospettive: gli affetti, i valori portanti non sono i soldi; ti mette davanti alla realtà delle cose.».

2. Il senso della vita

Uno dei temi che maggiormente stanno coinvolgendo i giovani è quello che riguarda la vita: il suo valore, il suo senso, la sua fragilità.

Questa pandemia non so se ha dato un nuovo senso alla vita, però sicuramente ha dato dei nuovi occhi per vedere la mia vita”. Mi pare che sia un’efficace testimonianza per capire che la pandemia ha messo in moto nella coscienza dei giovani tanti interrogativi e li ha costretti a guardare alla vita da un altro punto di vista: quello della fragilità, del limite, dell’imprevedibile. “La nostra vita – dice questo giovane – non ce l’abbiamo in mano, e per questo può anche succedere che da un momento all’altro non siamo più qui. (…). Credo che l’uomo si senta un po’ onnipotente e in grado di controllare la sua vita, gestirla e condurla a proprio piacimento. E invece in questa situazione ci si rende conto che, almeno a me, ha messo anche di fronte al fatto che la vita non è data per scontata, è un dono, e per questo ogni giorno è prezioso.”

La nuova consapevolezza sulla vita genera conseguenze sul modo di vivere, fa capire che

non va sprecata, che occorre non lasciarsi vivere, non perdere nemmeno un istante di essa

nella banalità. Le piccole cose emergono nel valore che hanno nel quotidiano. Una giovane

dice di essersi posta molte volte questa domanda, ma non ha trovato risposte, solo questa:

«L’unica cosa che credo è che la vita sia un mistero. E ci pone davanti a tante scelte e a tante difficoltà».

E un altro aggiunge che il senso della vita è trovarne il senso: «Direi che ha iniziato ad avere un senso… ho capito che il senso è proprio trovare il senso della mia vita. (…). Sono un po’ più consapevole di quello che effettivamente è la mia vita, però allo stesso tempo dopo questa esperienza provo il desiderio di capire ancora. Mille punti su cui riflettere».

Qualcuno ha trovato nella fede la risposta: “Questa è una domanda che mi sono sempre posta in realtà nella mia vita, fin da quando ero più piccola. Le mie domande hanno trovato risposta nella fede, nel Vangelo, nell’amore, nella felicità, nel ricercare ogni attimo del vivere, perché questo periodo se ci ha insegnato qualcosa è che quello che è realmente importante è l’essenzialità, scoprire l’essenziale, vivere ogni istante, vivere l’oggi senza preoccuparci troppo del domani: di un abbraccio, di una carezza, di vivere ogni gesto intensamente, perché’ poi in un attimo tutto può scomparire, tutto può cambiare”.

Una giovane che si dichiara non credente dice che ha trovato il senso della vita in una domanda di spiritualità forte: “Mi ha fatto più assaporare il senso della vita e anche avvicinarmi non a Dio perché non sono credente, ma ad una spiritualità perché, magari proprio il fatto della solitudine mi ha fatto interrogare su che cos’è il senso, se non ci sono gli altri, perché’ anch’io penso che sia negli altri il senso della vita: cercare un senso un po’ più privato e personale. Proprio una ricerca di spiritualità, ecco, questa pandemia ha aumentato il mio bisogno di spiritualità”.

3. Dio

L’esperienza della fragilità, del limite, dell’imprevedibilità della vita, fa emergere la questione di Dio. Tuttavia, emerge in maniera quasi sommessa, quasi indotta. Il covid è una questione che riguarda la scienza. Dio non ha nulla a che vedere con la storia umana e quello che accade in essa: “La responsabilità della pandemia è in un virus sconosciuto, che la scienza scoprirà e per il quale troverà i rimedi. E come dichiara che lui ha in sé la forza e la responsabilità di affrontare i problemi della vita, così sembra che allo stesso modo l’umanità debba trovare da sola le proprie soluzioni ai problemi.”

Non solo i giovani non danno la colpa a Dio di ciò che accade (Dio è buono, non può volere il nostro male); ma nemmeno lo interrogano (si direbbe che non conoscono l’esperienza di Giobbe).

Dio casomai nei giorni più difficili è stato la forza, un rifugio. Dio ci consola nei momenti

difficili, secondo la testimonianza di una delle partecipanti a un focus realizzato nell’ambito

dell’indagine su Giovani, pandemia e senso della vita: “Penso che questo periodo ci abbia

fatto riflettere molto su come Dio ci possa stare vicino nelle difficoltà”.

Questo fatto mi induce a soffermarmi in primo luogo sull’idea che i giovani hanno di Dio,

credenti e non credenti. Il Dio dei giovani ha forti caratteri di emotività; come si può capire

ad esempio, da questa testimonianza, tratta dalle interviste per l’indagine su giovani e fede

di qualche anno fa: «La fede nasce dal rapporto personale che hai tu con Dio, un Dio indeterminato… che può essere cristiano come no. Io con il mio Dio ho un rapporto personale …. Ognuno di noi ha un rapporto singolare col proprio Dio. Ognuno di noi è unico e quindi ognuno di noi ha la sua idea di Dio.”.

Il modo di intendere la preghiera è fortemente indicativo di questo: “La preghiera è qualcosa di intimo. È come quando tu parli privatamente con una tua amica, con una persona cara, hai delle cose da dire che magari preferisci tenere per te e per quella persona.

Preferisco sempre la preghiera in camera mia o comunque in posti privati e preferisco le preghiere non prestabilite… l’Ave Maria, il Padre Nostro sono preghiere bellissime, e ovviamente non si toccano, però mi piace anche un discorso diretto con Dio.”.

È un Dio in cui si riflette l’impronta individualistica della cultura diffusa, che i giovani hanno assorbito più di altri.

A fronte di queste testimonianze – ma molte altre ne potrei portare in questo senso – mi pare che si possa dire che

– I giovani non respingono la prospettiva religiosa; casomai la stanno interpretando soggettivisticamente, al di fuori di ogni riferimento istituzionale e oggettivo. Mi sembra che ritengano normale che ciascuno creda come gli pare. Il loro approccio al mondo religioso è “selvatico” nel senso che non è coltivato; sono privi di punti di riferimento e di luoghi di dialogo sulle grandi questioni che tuttavia si pongono, anche quelli che praticano.

– Manca loro qualsiasi elaborazione della trascendenza. Dio, nella sua “distanza”, è portato vicino, dentro di sé, in un’esperienza emotiva, tutta interiore.

– L’atteggiamento religioso dei giovani è quello di chi cattura Dio dentro il proprio orizzonte, e lo considera in funzione del proprio benessere soggettivo.

I giovani mi pare che non siano di poca fede, ma di una fede diversa, che nemmeno riescono a decifrare, essendo stati educati nella fede del passato. E finiscono con il sentirsi increduli -e qualcuno anche a colpevolizzarsi- per il fatto che si sono scostati da ciò che è stato loro insegnato. Dopo aver abitato per un po’ il confine, i giovani fanno il salto e si collocano sul territorio dell’”incredulità implicita”, conservando però dentro di sé tante domande e inquietudini. Etichettare i giovani come increduli è sbrigativo e fuorviante, così come è fuorviante valutare la loro sensibilità religiosa a partire dalla pratica religiosa: significa valutarli alla luce di parametri religiosi che sono quelli di un altro tempo (naturalmente non voglio mettere in discussione ciò che è perenne del messaggio cristiano, ma indicare le forme del credere, che sono storiche). Significa aver trovato loro una collocazione nel sistema pastorale della comunità cristiana, esimendoci da uno sforzo interpretativo della loro posizione.

Preferisco considerarli credenti sui generis, persone in ricerca, o come scrive Castegnaro[2], in stand by, sapendo che la loro posizione è a forte rischio di estraneazione da una prospettiva religiosa. Nella generalità dei casi, né sono ostili alla fede né sono totalmente indifferenti. Quello che appare come indifferenza, spesso può essere il frutto di una “ritirata” da un territorio sconosciuto: i giovani non hanno parole per raccontare il loro

mondo interiore, né hanno luoghi dove portare i loro interrogativi confusi.

4. Il mondo interiore dei giovani

Difficile conoscere il mondo interiore dei giovani, perché è sconosciuto a loro stessi; la cultura in cui viviamo non favorisce l’introspezione; inoltre, il fatto di incontrarsi con questioni difficili e inquietanti e di affrontarle in solitudine, li porta ad evitare questo contatto con il proprio Sé più profondo, impegnativo e talvolta doloroso[3].

Certo si può intuire che la vita dei giovani è abitata soprattutto da emozioni, è alla ricerca di relazioni soprattutto con i coetanei, ma anche con figure adulte che abbiano credibilità e autorevolezza. Sentono il bisogno di calore, di protezione, di rassicurazione: forse non lo ammetteranno mai, ma i loro comportamenti parlano per loro.

Nell’indagine su giovani e covid, la discussione più intensa è stata questa sul senso della vita. In diversi gruppi è emerso che il senso della vita sono le relazioni. Un giovane pensa che «La vita sia fatta non per essere vissuta da soli, ma stare con gli altri e aiutarsi a vicenda». E un altro gli fa eco: «Il senso può essere la relazione».

Anche il mondo religioso dei giovani è contagiato da questa corrente calda di emozioni positive, capaci di dare benessere. Nell’indagine su “Dio a modo mio” questa sensibilità emerge a proposito di tre aspetti.

– Prima di tutto riguarda Dio: i giovani non sono tanto interessati alla dimostrazione della sua esistenza, ma alla relazione con lui.

– Anche in riferimento alla comunità cristiana, i giovani ne valutano l’interesse in base alla qualità delle relazioni; e se prendono le distanze da essa, è perché trovano che sia un luogo anonimo, freddo, impersonale, dove le persone non contano e dove loro non si sono sentiti riconosciuti (questo detto in riferimento soprattutto alla celebrazione eucaristica).

– Infine, alla domanda su che cosa ritengono che ci sia di bello nel credere, sono venute le risposte più inaspettate. La quasi totalità ha risposto che credere è bello e, tra le ragioni, parecchi hanno detto che chi crede non è mai solo, ha sempre qualcuno che si prende cura di lui: “È come se avessi sempre qualcuno vicino, non sei da solo, sei supportato in ogni momento da un qualcosa vicino che è come se ti aiutasse sempre, è essere convinti che ci sia sempre qualcuno che ti sta vicino, che quando ti senti solo e ti senti perso nel mondo, c’è qualcuno, sono tranquillo, non sono mai solo”.

– Questo Dio sta su un piano diverso rispetto a quello su cui stanno gli umani. Ma siccome è un Dio buono, a lui gli umani possono rivolgersi per avere sostegno, aiuto; è un rifugio nei momenti difficili. È un Dio che non è considerato nella sua oggettività: è un Dio per me, che risponde ai miei bisogni di pace, di benessere, di consolazione. Non si tratta di discutere se Dio esiste o meno, ma come io sto in relazione con Lui. Dio è in funzione di me.

– Se si vuol capire la vita religiosa dei giovani di oggi, credo che occorra cercare sul piano del loro atteggiamento di fronte alla vita e di fronte a se stessi; occorre guardare nel miscuglio di emozioni e nel bisogno di compagnia e di rassicurazione. Il narcisismo dei giovani, la loro vita autocentrata, si riflette anche sul piano religioso.

– Il Dio dei giovani non li aiuta a uscire da sé, a superare se stessi in una logica di amore e di dedizione, ma è in funzione di sé: ne hanno bisogno perché li aiuta a vivere; dà loro un po’ di forza per affrontare le difficoltà della vita che, nei momenti critici, porta alla luce la loro fragilità.

5. Il rapporto con la Chiesa

Non è tanto il caso di riflettere sulle molteplici ragioni della distanza dei giovani dalla Chiesa, ma su due elementi cruciali:

– La formazione dei giovani passa attraverso un percorso catechistico che è messo in atto dalla comunità cristiana e che si svolge al suo interno. Nella percezione dei giovani, anche quando l’esperienza è stata positiva e ha lasciato un buon ricordo, è identificata con ciò che appartiene al mondo dell’infanzia, a quella fase della giovinezza che occorre superare per diventare adulti. Qui sta il problema: la comunità cristiana oggi non riesce a presentare una forma di vita cristiana adulta interessante, desiderabile e credibile per giovani che aspirano a diventare adulti.

– In secondo luogo, la comunità cristiana gravita -talvolta si esaurisce- nelle celebrazioni, che dal punto di vista del linguaggio -in senso lato e in senso stretto- e dal punto di vista dell’esperienza comunitaria sono fortemente in difficoltà a entrare in relazione con la sensibilità di oggi, soprattutto quella giovanile.

È chiaro come non vi sia comunicazione tra la formazione proposta dalla comunità cristiana e la sensibilità giovanile. È chiaro che occorrono nella comunità cristiana e nella sua azione pastorale dei cambiamenti, ma quali? Qualcuno di essi verrebbe anche in mente, ma si rivela inutile e impraticabile a fronte della domanda: dove incontrare i giovani?

Il rischio che si corre è quello di pensare proposte per interlocutori che non ci sono.

6. Dove sono i giovani?

La percentuale dei giovani che passa dalla parrocchia e ha in essa il proprio punto di riferimento è minima; ancor più piccola è quella dei giovani che passano da associazioni e movimenti vari. I numeri assoluti possono sembrare rilevanti, ma occorre guardare alla percentuale per capire la realtà. Le realtà associative a impronta formativa sono le più in crisi; miglior sorte hanno quelle che hanno una proposta più concreta: scoutismo, Caritas, e l’associazionismo sportivo, che non si occupa certo di educazione alla fede.

Però: la quasi totalità degli adolescenti la si incontra a scuola: si apre un capitolo di straordinario interesse che la pastorale non ha mai voluto aprire sul serio, a parte il discorso dell’IRC e della scuola cattolica. Dietro questa strategia vi è l’idea che alla comunità cristiana interessa solo un esplicito discorso religioso, se non confessionale. Ma la scuola può entrare in dialogo con gli adolescenti se è in grado di fare con loro quei discorsi di umanità che sono quelli di cui gli adolescenti hanno bisogno. Gli adolescenti sono dei potenziali cercatori di Dio; forse cercatori confusi, forse cercatori impliciti, forse cercatori conflittuali, ma cercatori. Sempre meno gli adolescenti di questo nostro tempo hanno domande di fede esplicite, ma hanno domande di vita, di umanità, di senso, con cui gli educatori, soprattutto se credenti, devono saper entrare in dialogo, valorizzando le discipline che insegnano.

Moltissimi giovani si possono incontrare in Università; su di essa la pastorale ha investito ancora meno che sulla scuola. Sembra che via via che l’età delle persone avanza, la pastorale investa di meno. Come interpretare questo fatto? La comunità cristiana non ha un modello di vita cristiana, di fede, di spiritualità, da adulti? Ciò che ho detto per la scuola vale a maggior ragione per l’Università. Forse le cappellanie universitarie offrono già una proposta volta agli interessi di crescita umana dei giovani? O offre solo risposte a domande di fede che sono sempre più sporadiche? O offre momenti di celebrazione che ormai interessano solo ad una minoranza esigua?

Certo se i giovani oggi in Università, oltre ai corsi di studio che permettono loro di raggiungere il diploma di laurea, potessero trovare luoghi in cui confrontarsi sugli interrogativi della vita o/e persone adulte capaci di ascoltarli e dedicare loro tempo e attenzione in una relazione personale, sarebbe per i giovani una grande risorsa.

Del potenziale educativo di scuola e università, vorrei mettere in evidenza soprattutto la possibilità che essi hanno di educare alle domande e attraverso le domande.

I giovani che hanno interrogativi ai quali hanno saputo dare parole hanno bisogno di avere accanto a sé persone che sanno lavorare sulle domande, cioè approfondirle, creare percorsi dentro le questioni della vita, alla ricerca di un’autenticità umana che può aprirsi a Dio. Stare sulle domande significa non voler a tutti i costi trovare o proporre risposte: vi sono interrogativi che rivelano la loro fecondità proprio per i percorsi umani, spirituali, culturali

che fanno compiere. Certo le domande senza risposta sono pesanti e a volte dolorose, ma

sono feconde di vita, di profondità nuove, creative. Stare: significa non fuggire ma casomai

custodire le domande come Maria custodiva nel cuore gli infiniti interrogativi che i fatti della vita le ponevano. Maria custodiva nel cuore fatti indecifrabili, come sono spesso le domande della vita, che non sono astratti interrogativi razionali, ma densi interrogativi esistenziali.

Nell’adolescenza inizia la stagione delle grandi domande, e inizia quando i ragazzi hanno perso ogni riferimento ad ambienti in cui sia possibile portare i propri interrogativi, i propri dubbi, le proprie inquietudini.

L’educazione scolastica, soprattutto quella che passa attraverso alcune discipline, può dare un grande contributo per educare alle domande, per aiutare i ragazzi a leggere dentro di sé, per dare loro quelle parole dell’interiorità che permettono loro di tradurre in linguaggio il mondo talvolta confuso dei loro interrogativi di vita.

Papa Francesco con la sua proposta di un Patto Educativo Globale richiama tutti i mondi dell’educazione a stabilire alleanze in funzione della crescita armonica delle nuove generazioni. Forse è il tempo che la comunità cristiana muova per prima passi verso la scuola, non per chiedere spazi per le proprie proposte religiose, ma per cercare e offrire aiuti per l’educazione necessaria e possibile degli adolescenti di oggi.

7. Prospettive, rispetto alle strategie formative

Credo che per aprire con i giovani discorsi di fede non si possa non partire dal punto in cui i giovani sono, per una formazione che abbia qualche possibilità di entrare in dialogo con la loro vita reale.

– Forse alle modalità formative del passato, volte solo a proporre e spesso a confutare gli errori di visuale, dovrà sostituirsi un aiuto ai giovani a districarsi nella loro confusione emotiva – sentimentale, dare loro parole per decifrare la loro interiorità, insegnare loro quali sono i percorsi verso Dio; come è possibile passare da una relazione con Dio in funzione di sé a una relazione che liberi da sé. Quando si dice che il nostro tempo o sarà mistico o sarà senza Dio, forse si intende questo: occorre accompagnare le persone a rendere adulta quella relazione con Dio che oggi vivono in maniera narcisistica, mortificando la effettiva generosità di molti in una ricerca che attraversa anche il senso di responsabilità verso gli altri. Sembra un’impresa al limite dell’impossibile, soprattutto per una generazione adulta che ha ben altra impostazione religiosa e spirituale. Forse oggi per i giovani la ricerca di Dio assomiglia di meno alla ricerca della verità e di più all’ingresso in un’esperienza di amore, a cominciare dall’amore concreto fatto di gesti di solidarietà;

– L’azione educativa potrà essere efficace solo attraverso una sua radicale trasformazione, che abiliti gli educatori a lavorare sugli interrogativi, ben prima che offrire proposte.

– Oggi occorrono educatori capaci di stare in ascolto dei giovani, convinti dell’efficacia formativa di tale pratica, ritenuta in genere solo propedeutica ad un’azione formativa che si compie altrimenti.

– E poi bisogna ri-alfabetizzare il mondo interiore: la scuola e l’università avrebbero tanto da fare in questa prospettiva.

Conclusioni

Queste riflessioni possono sembrare amare e depresse; se così fosse, avrei dato un’idea diversa rispetto a come io vivo questa situazione. Certo la speranza ha bisogno della nostra disponibilità a cambiare lo sguardo sulla realtà giovanile e a vedere in essa gli indizi del futuro, di un futuro promettente, purché non sia abbandonato a se stesso; e purché l’accompagnamento non sia volto a ricondurre tutto al passato.

La speranza credo che abbia bisogno di qualche ingrediente:

– Un atteggiamento di ascolto continuo, intenso, empatico e non giudicante.

– La disponibilità a studiare, ad approfondire quello che sta accadendo, per poter orientare il processo, accompagnarlo, in atteggiamento di ricerca.

– Lavoro di squadra, nel rifiuto delle navigazioni solitarie: questo è tempo per scoprire l’interdipendenza, la condivisione, ricerche capaci di integrarsi. Il Patto Educativo di Papa Francesco forse comincia a giocare qui le sue carte migliori.

– Se posso riassumere con un’immagine: penso a quella dell’esploratore: al suo coraggio, alla sua curiosità, alla sua capacità di interpretare gli indizi… Alla sua fiducia di trovare!


[1] L’osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo ha condotto una ricerca su come i giovani hanno vissuto la pandemia e sugli

interrogativi che questa esperienza ha suscitato in loro. Gli esiti di questa ricerca sono in corso di pubblicazione: Bignardi P.

– Didoné S. (a cura), Niente sarà più come prima. Giovani, pandemia e senso della vita, Vita e Pensiero, Milano 2021. Altri dati che presenterò sono tratti da diverse indagini dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo; in particolare due indagini

quantitative effettuate nello scorso aprile e di nuovo nell’ottobre scorso e le ricerche dell’Istituto sul rapporto tra i giovani e la

fede.

[2] Castegnaro A., Giovani in cerca di senso, Quiqajon, 2018.

[3] Mencarelli D., Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano 2020.