
È Dio, quindi mi somiglia
Non è nostro compito predire il
giorno – ma quel giorno verrà – in cui degli uomini saranno chiamati nuovamente
a pronunciare la parola di Dio in modo tale che il mondo ne sarà cambiato e
rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non religioso
Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa
«Pietà di me, o Dio, secondo la tua
misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte
le mie colpe, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia colpa, il mio peccato
mi sta sempre dinanzi» (Salmo 51,3-5). Miserere mei, Deus. Parole
cantate in tutte le lingue, generazione dopo generazione, capezzale dopo
capezzale, lacrima dopo lacrima, disperazione dopo disperazione, speranza dopo
speranza. Forse non c’è salmo più amato del Miserere, più amato
dalla gente, dai poveri. Non tutti si ritrovano perseguitati, non tutti
riconosciamo l’impronta del Creatore nel cielo stellato, e così quei salmi
scritti e donati per queste circostanze restano muti; ma non c’è uomo né donna
che non abbia sentito almeno una volta nella vita un bisogno invincibile di
essere perdonato – fosse solo nell’ultimo istante. L’homo sapiens è
animale mendicante di perdono.
In questo commento al Libro dei salmi, in genere non citiamo il primo verso del
canto, dove si trova il titolo redazionale che fornisce informazioni
sull’autore e sul contesto storico, anche perché non sempre aiuta a percorrere
la strada esegetica buona. Per il Salmo 51, però, il titolo è molto importante:
“Salmo di Davide. Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva
peccato con Betsabea” (51,1-2). È la ferita sempre aperta dell’Antico
Testamento, il buco nero della storia della salvezza, la pausa dolorosa dentro
la genealogia di Gesù: «Davide generò Salomone da quella che era stata la
moglie di Uria» (Mt 1,6). L’omicidio di Uria l’ittita, il fedele e leale
soldato che Davide fece assassinare, un nome di sangue di un non-padre,
inanellato, come perla opaca, in quel rosario che recitiamo da due millenni in
ogni Natale.
Natan il profeta fu mandato da Dio al re Davide per rivelargli la gravità del
suo peccato (2 Sam 12,1). E dopo avergli narrato la parabola della pecorella e
aver ottenuto l’indignazione del re per il delitto compiuto dall’uomo ricco
della favola, quel profeta pronuncia una delle frasi più tremende della Bibbia:
«Quell’uomo sei tu» (12,7). Davide non maledì Natan, riconobbe il suo delitto e
recitò il suo miserere: «Ho peccato contro il Signore» (12,13). Il
Salmo continua la preghiera lì dove l’aveva interrotta il secondo libro di
Samuele: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi
occhi, io l’ho fatto» (Salmo 51,6). Davide è grande anche per il suo miserere,
grande come il suo peccato.
Siamo di fronte a una delle pagine che hanno inventato l’etica della colpa.
Non è l’unica pagina (ce ne sono di immense anche nei miti greci), ma il
peccato di Davide e la sua gestione sono tra le parole prime del grande
discorso sulla colpa, che si è aggiunto a quello, più arcaico e ancora vivo,
dell’etica della vergogna. Nella colpa è lo sguardo di Dio a vederci nel
segreto e a denunciare il nostro delitto; nella vergogna è lo sguardo degli
altri a scoprirci, condannarci e punirci. Il passaggio dalla vergogna alla
colpa (mai del tutto compiuto e netto) ha rappresentato, per molti aspetti, un
salto etico della civiltà e delle religioni, ma anche l’etica della colpa
conosce le sue patologie e ha prodotto e produce i suoi danni.
La cultura della colpa è all’origine di gravi forme di schiavitù, non solo
psicologiche o spirituali. Ha impedito a troppe persone di fare l’esperienza
della libertà e della liberazione perché inchiodati in perenni crescenti sensi
di colpa, quasi sempre inventati o amplificati. Ciò accade ed è accaduto quando
l’esperienza della colpa non è preceduta e accompagnata dall’esperienza più
fondativa dell’essere amati e quindi liberati anche dai nostri sensi di colpa,
dalla certezza che non siamo amati perché senza colpa ma di
essere amati-e-basta, che siamo prima innocenti e poi colpevoli, che nessuna
colpa può cancellare l’immagine di Dio eredità dell’Adam, perché Caino ha
ucciso Abele, ma non la sua somiglianza con Dio. Perché se è vero, come ci
ricorda Davide, che «fin dalla nascita sono nella colpa, peccatore mi ha
concepito mia madre» (51,7), i profeti ci ricordano che prima siamo
amati: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo» (Ger 1,5). La
cultura della colpa è molto pericolosa perché offusca questa priorità d’amore,
perché ci toglie la gioia («fammi sentire la letizia»: 51,10), ci blocca dentro
i nostri demeriti, ci concentra narcisisticamente sul nostro ombelico morale e
non ci fa più vedere la bellezza gratuita che ci circonda.
I Salmi 50 e 51 affrontano una specifica patologia della cultura della colpa. È
quella contenuta nella logica del sacrificio. C’è un rapporto molto
stretto tra colpa e sacrificio. Si commettevano peccati nei confronti del
prossimo, il peccato generava nella persona e nella comunità il senso
di colpa, che si voleva placare con sacrifici offerti a Dio. Quindi il
senso di colpa era generato da ingiustizie nei rapporti orizzontali inter-umani,
ma la riparazione dei danni avveniva in un rapporto verticale tra
gli uomini e la divinità. La Bibbia qui denuncia la perversione di questo
meccanismo colpa orizzontale/riparazione verticale: «E io [Dio] mangerei carne
di toro? Sangue di becchi berrei?» (Salmo 50,13); «Ah tu non ami le
immolazioni, se ti offrissi un olocausto ti ritrarresti» (Salmo 51,18). Il
peccato, nella Bibbia, non è mai una faccenda privata tra me e la divinità: è
invece un “male pubblico”, che produce sempre “esternalità
negative” sugli altri, di cui mi devo far carico se il pentimento è
responsabile.
Il salmista ci ricorda, insieme ai profeti, che non si può violare la giustizia
del prossimo e poi sperare di riparare nell’ambito del culto religioso: «Perché
andar ricopiando i miei precetti e del mio Patto aver piena la bocca? Se vedi
un ladro subito sei con lui, hai fatto lega con i corrotti, la tua bocca
affonda nel male, consacri la tua lingua all’aberrazione e il tuo parlare è
contro tuo fratello, vai insozzando il figlio di tua madre» (50,16-20). Questi
doni-sacrifici sono allora soltanto tangenti offerte a Dio,
regali mafiosi che solo gli idoli accettano: «Sacrificare il frutto dell’ingiustizia
è un’offerta da burla; … L’uomo che digiuna per i suoi peccati e poi va e li
commette di nuovo. Chi ascolterà la sua supplica?» (Sir 34,18;25-26).
Siamo di fronte all’antica tentazione, a volte assecondata dalle religioni, di
credere che i danni arrecati al prossimo possano essere “pagati” a
Dio in sofisticati mercati delle indulgenze. La ragione di questo rapporto
malato è semplice: se il sacrificio è il prezzo del mio
peccato, la religione diventa un mercato delle vacche dove si compra il permesso
a peccare. I templi diventano così uffici di condoni perpetui, che non
fanno altro che incentivare i peccati – anche perché i nostri peccati diventano
risorse per il tempio. È un’idea infantile di Dio e della religione, mai spenta
nel cuore delle fedi. Ecco allora la soluzione diversa indicata dal Salmo nel
canto di Davide pentito: «Ma io ti immolo un soffio lacerato, un fiato rotto e
schiantato tu non ne hai schifo o Dio» (51,19), perché «il pentimento che mi
s’immola è questa la mia gloria» (50,23). Il salmista qui toglie al sacrificio
la sua logica economico-retributivo-compensativa, e ne fa un’espressione di
lode, una preghiera di supplica di conversione: «Crea in me, o Dio, un cuore
puro, rinnova in me uno spirito saldo» (51,12).
Una innovazione della spiritualità. Se ho commesso un peccato, se ho violato la
giustizia, non è possibile compensare il danno procurato a persone concrete con
un sacrificio a Dio. C’è però un atto sincero che posso fare: chiedere a Dio un
“cuore nuovo”, e quindi promettere la
conversione, impegnarmi a non commettere più quel reato – e
magari riparare il danno che ho fatto, ma questo il salmo non lo dice.
L’atteggiamento più saggio, la migliore economia del pentimento è quella che
guarda al futuro non quella che si volge al passato: se c’è una salvezza da
qualsiasi passato è quella che pone la sua tenda nel domani.
Noi abbiamo imparato nei millenni che neanche la richiesta del cuore nuovo,
neanche il “sacrificio di lode” offre garanzie che non commetterò più
quel peccato che ora “confesso” di fronte a Dio; ma il salmista ha
voluto eliminare la “borsa valori” dei peccati dove portare allo
sconto ogni nostra “cambiale morale”. In realtà, anche se i sacrifici
di tori e agnelli sono finiti nella nostra cultura, non si è mai spenta la
tentazione di fare della religione un luogo di compensazione verticale di
peccati e danni di cui non vogliamo assumerci la responsabilità orizzontale del
risarcimento. Le borse valori e le stanze di compensazione sono cambiate di
forma, ma non di sostanza, sono uscite dalle religioni e dalle chiese, ma è
restata sempre troppo forte la tentazione di “insozzare il fratello”,
di violare la giustizia e il diritto, e poi aspettare qualche forma di condono
o di sanatoria dove lavare, con un’offerta, il nostro peccato. E i salmi
continuano a ripeterci, per conto di Dio: «E mentre tu fai questo io starei
muto? Ti figuri me come qualcuno che ti somigli?» (51,21).
Eppure, caro antico amico salmista, noi “somigliamo davvero” a quel
Dio che in te ci rimprovera. Ce lo ha detto quella stessa Bibbia che ospita il
tuo canto: «A immagine di Dio lo creò» (Gn 1,27). Non “figuriamo”
niente di strano. Ogni immagine è una relazione di reciprocità, e se noi siamo
immagine di Dio anche Dio è immagine nostra. Sappiamo bene che noi umani siamo
un intreccio di vizi e virtù, di bellezza e peccati, di fedeltà e di
tradimenti, che siamo tutti fratelli di Abele e di Caino, tutte sorelle, figli
e figlie di Ruth e di Gezabele. Tutti immagine di Elohim, gli somigliamo tutti.
E allora qualcuno potrebbe fare alla Bibbia domande scomode: perché dovremmo
proteggere l’immagine dalle ombre e salvare solo le luci? Perché ridurre e
ritagliare quel versetto per farci entrare soltanto la somiglianza con la
nostra parte buona? E se non fosse l’etica il criterio giusto per operare
questo ritaglio? Se Dio fosse più grande delle nostre virtù? Se gli
somigliassimo di più di quanto pensiamo? E se fossimo, anche noi, più grandi
del nostro cuore?
Luigino Bruni, Avvenire 18 luglio 2020