1 Luglio 2020
Nel tempo del forzato isolamento da quarantena ho avuto la possibilità di ritornare a una fonte che spesso nutre il mio percorso spirituale e teologico; mi sono inoltrato nelle ricche suggestioni poetiche e teologiche di Michael Paul Gallagher, gesuita che per anni ha insegnato all’Università Gregoriana, con il quale il legame personale andò ben presto oltre le scadenze accademiche che scandivano il mio ritmo da studente.
Da fine osservatore dei movimenti profondi della vita e del cuore umano, Gallagher non riduceva mai la teologia – tantomeno la fede – a una serie di freddi concetti dogmatici; sosteneva – mescolando con eleganza la sua formazione letteraria e la spiritualità ignaziana – che bisogna prestare attenzione a ciò che viviamo, aprirsi allo stupore, cogliere i raggi della grazia nella valle talvolta monotona del quotidiano.
Così, forse per avvicinarli di più al grande pubblico, decise di “tradurre” i giganti della teologia del Novecento, immaginando anche dei monologhi in cui essi davano voce a ciò che la loro impresa teologica cercava di comunicare (M.P. Gallagher, Mappe della fede. Dieci grandi esploratori cristiani, Vita e Pensiero, Milano 2011).
Una lezione da Flannery O’Connor
Tra questi grandi, però, Gallagher annovera nel suo testo Flannery O’Connor, la scrittrice americana morta a solo 39 anni che, con i suoi racconti, riesce a sfidare un cattolicesimo convenzionale e conformista, ridotto ad una rassicurante esperienza religiosa in cui Dio viene stretto nelle maglie di definizioni e luoghi comuni. Dio, invece, è anzitutto una sorpresa permanente, come più spesso ripetuto da papa Francesco, e la O’Connor intende narrare proprio lo “shock” provocato dalla grazia divina quando visita la vita quotidiana.
Gallagher mette sulla bocca della O’Connor queste parole: «Col passare degli anni, sono sempre più radicata nel mio cattolicesimo e, al tempo stesso, sempre più reticente riguardo alle facili certezze su Dio… Non si può incasellare l’Onnipotente nelle nostre categorie intellettuali».
Le parole richiamano la ben nota “teologia negativa”, che afferma l’importanza del silenzio sulla parola quando ci troviamo dinanzi al Mistero di Dio. Non è il silenzio di chi non sa o non può dire, ma lo stupore dinanzi alla grandezza di Dio che non può mai essere imprigionato nelle parole, nei ragionamenti e negli schemi umani. È quel silenzio della fede e della preghiera che – come affermava Rahner – è l’ultima parola prima dell’adorazione di Dio.
Benedetto XVI, durante un’Udienza Generale del 2008, ci ha ricordato che «Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente»; anzi, la figura di spicco della teologia negativa, Dionigi l’Areopagita, oggi «appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell’Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative».
Il Dio che castiga non è quello di Gesù
E veniamo così a una delle facili “certezze” su Dio emerse anche nel seno del cattolicesimo – ma non solo – in questo tempo di pandemia. Un virus nel virus, che si diffonde a macchia d’olio, andando spesso a colmare la mancanza di una formazione cristiana adeguata, sopperendo all’analfabetismo biblico e, soprattutto, infilandosi in modo astuto nelle paludi di una religiosità fondata sulla paura e spesso alimentata dalla superstizione. Si parla troppo di Dio in questa pandemia – al contrario di quanto si afferma – e il problema è che se ne parla male.
Così, nel variopinto mercato dell’offerta religiosa e nella bulimia di messaggi che cercano di “spiegare” il virus ricorrendo alle tesi più improbabili, le voci di predicatori evangelici, imam e preti cattolici, spesso mettono in luce la vecchia superstizione religiosa del “Dio castigatore” o della Bibbia che “lo aveva predetto” e di qualche altro strano messaggio dell’aldilà.
Si potrebbe riflettere a lungo – e proprio a partire dal Vangelo – su quanto sia falsa e anti-cristiana l’immagine di un Dio che castiga, che, pieno di sdegno e di ira, manda un virus che riempie i letti degli ospedali e spesso uccide; un Dio, che invece che essere il Padre della misericordia narrato da Gesù, si diverte a far soffrire gli uomini. Magari lo fa per motivi pedagogici come potrebbe farebbe un padre terreno e, d’altra parte, nella Bibbia si parla a volte dei castighi di Dio; salvo considerare però le numerosi esegesi bibliche di questi testi e, magari, evitare di leggere le parole della Scrittura alla lettera e studiare il rivestimento linguistico e culturale del linguaggio usato dagli autori sacri. E Dio, comunque, rimane sempre più grande di un qualsiasi padre terreno e dei suoi criteri.
Sul tema delle false immagini di Dio ho dedicato di recente una pubblicazione. Nomi più autorevoli di me hanno sgombrato il campo dal pericolo di coltivare, specialmente in tempi di pandemia, immagini di questo tipo.
Il vescovo di Noto, Antonio Staglianò, ha affermato al termine di una celebrazione eucaristica: «Non credete in chi vi dice che Dio castiga, non credete a chi vi dice che Dio vi sta punendo per i vostri peccati, per tutte le condizioni disgraziate… le dis-grazie, cioè l’essere fuori dalla grazia di Dio, non esistono. Esistono le tragedie, i drammi, le grandi sofferenze, ma non le disgrazie perché i drammi, le tragedie e le sofferenze sono tutte dentro la Grazia di un Dio Provvidenza… a chi dovete credere? Dovete credere a Gesù di Nazaret. E Gesù ha detto: Dio non è cosi come ve lo state immaginando, come ve lo hanno raccontato. Io vi dico che Dio è sempre e solo Amore e interviene dentro le nostre tragedie soffrendo con noi, piangendo con noi, sempre sulla Croce… e, se non verrai liberato dalla morte, sarai sicuramente liberato da Dio nella morte».
Rispondendo ai lettori di Famiglia Cristiana a proposito del coronavirus come castigo di Dio, il teologo Giuseppe Lorizio si è soffermato sull’episodio evangelico del cieco nato e sull’interrogativo che pongono a Gesù: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori?». In questa occasione – afferma Lorizio – «Gesù sconvolge la teologia del suo tempo, che interpretava ogni forma di sofferenza come conseguenza del peccato. Quindi esclude il paradigma del castigo». Al contrario, «Ogni circostanza, anche le più drammatiche, ci sono date perché in esse si manifesti il “mistero del Regno di Dio”».
Lorizio afferma che, piuttosto, la guarigione avviene dall’incontro tra il divino e l’umano, come nel caso del cieco nato: «La saliva di Gesù è il segno del divino, del soprannaturale, che nella sua umanità si esprime, mentre la terra, che si trasforma in fango, viene a dirci che la guarigione sarà prodotta dalla terra, ovvero dal nostro impegno, attraverso l’intelligenza e la scienza (= la ricerca scientifica) e l’esercizio della volontà libera (= il rispetto delle regole e la solidarietà)».
C’è un altro episodio evangelico su cui si è soffermato papa Francesco, quello della Torre di Siloe: «Gesù conosce la mentalità superstiziosa dei suoi ascoltatori e sa che essi interpretano quel tipo di avvenimenti in modo sbagliato. Infatti pensano che, se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati per qualche colpa grave che avevano commesso; come dire: “se lo meritavano”… Gesù rifiuta nettamente questa visione, perché Dio non permette le tragedie per punire le colpe, e afferma che quelle povere vittime non erano affatto peggiori degli altri. Piuttosto, Egli invita a ricavare da questi fatti dolorosi un ammonimento che riguarda tutti, perché tutti siamo peccatori… Anche oggi, di fronte a certe disgrazie e ad eventi luttuosi, può venirci la tentazione di “scaricare” la responsabilità sulle vittime, o addirittura su Dio stesso. Ma il Vangelo ci invita a riflettere: che idea di Dio ci siamo fatti? Siamo proprio convinti che Dio sia così, o quella non è piuttosto una nostra proiezione, un dio fatto “a nostra immagine e somiglianza?”».
Si parla di Dio “troppo” e “male”
La soluzione del “Dio che castiga” serve a darsi una spiegazione facile e deresponsabilizzante che, al di là dell’apparente durezza, è in realtà confortevole: basta che ci convertiamo, che facciamo un po’ di penitenza e Dio ci perdonerà. E torneremo allegramente a saccheggiare la natura, a inquinare i fiumi, a idolatrare il mercato, a puntare tutto sulla produzione. Come se un virus, invece che farci riflettere eventualmente sulla relazione tra noi e il mondo in cui viviamo, fosse una forza oscura proveniente dall’aldilà.
Le fede ridotta a religione e la religione che diventa superstizione giungono con facili quanto irreali soluzioni a risolvere enigmi dinanzi ai quali non vogliamo impegnare troppo il pensiero.
Gallagher fa dire a Flannery O’Connor: «La fede non è semplicemente una sorta di termocoperta. Se avanziamo verso una nuova libertà scalciando e gridando, è perché i posti più vecchi e angusti sembrano più sicuri e sono senz’altro a buon mercato».
Forse non basta neppure smentire categoricamente questa malsana immagine di Dio. Ciò che occorre, alla teologia e alla predicazione cristiana, è fermare l’eccesso delle parole dinanzi al mistero del male e della sofferenza. Non incasellare Dio negli schemi concettuali umani e assumere la “teologia negativa” che fa silenzio e tace perché, dinanzi a ciò che è più grande, si mette in ascolto. Riflette e adora. E le uniche parole che usa le fa sgorgare dal silenzio, dalla preghiera e dal confronto costante con la Parola del Vangelo. Di Dio, infatti, si continua a parlare “troppo” e “male”.