13 Ottobre 2021
Nella società occidentale in rapido invecchiamento i giovani sono una delle minoranze più ignorate. Le opinioni e le esigenze di chi ha meno di trent’anni scivolano facilmente in secondo o terzo piano quando si tratta di prendere le decisioni che contano. La politica ritiene di poterselo permettere, perché nelle urne il peso dei giovani è scarso (in Italia sono appena più del 10% dell’elettorato) e ogni partito sa che, con il tempo, anche quei ventenni finiranno per diventare più docili e matureranno bisogni e idee ‘da vecchi’.
Invece i giovani meritano di essere ascoltati. Soprattutto quando parlano di temi che – per ragioni che potremmo anche definire biologiche – riguardano loro più di chi li governa. Come il debito pubblico, che contiene anche un Btp da 5 miliardi di euro in scadenza nel 2072. O come, a livello mondiale, il cambiamento climatico, che pochi dei nostri attuali governanti avranno modo di sperimentare nei suoi effetti più temibili, previsti dagli scienziati per la seconda parte di questo XXI secolo. L’evento ‘Youth4Climate: Driving Ambition’ è stato una bella occasione di ascoltare questi giovani.
Da giovedì a ieri 400 ragazzi e ragazze tra i 15 e i 29 anni di età arrivati a Milano da 186 Paesi hanno potuto discutere e fare proposte su come intervenire contro il riscaldamento climatico. Fra un mese, alla Cop26 di Glasgow, le loro idee potranno trovare spazio al vertice ‘degli adulti’. La voce dei giovani ha avuto ascolto e finalmente anche un’abbondante attenzione mediatica. Sono nativi digitali, sanno come catturare l’attenzione nell’era dei social. Il ‘bla bla bla’ con cui Greta Thunberg ha liquidato gli impegni dei politici sul taglio delle emissioni è un piccolo capolavoro da social, una perfetta ‘gif’ da rilanciare su Tik-Tok.
Quando però si è trattato di fare proposte concrete i giovani di Youth4Climate purtroppo non si sono dimostrati molto diversi dagli adulti. I punti centrali del documento finale approvato a Milano sono in larga parte obiettivi già condivisi e anche messi in pratica in decine di Paesi: ripresa sostenibile con al centro le rinnovabili, piani per l’azzeramento delle emissioni da parte delle aziende private, coinvolgimento dei giovani nelle decisioni sul clima, formazione nelle scuole sul tema della crisi climatica.
L’unico punto davvero divisivo, il più ambizioso, è l’abolizione dell’industria dei combustibili fossili entro il 2030. È una richiesta così irrealistica da avere l’aria di una provocazione. Il carbone, il petrolio e il gas naturale sono stati il carburante della crescita economica globale degli ultimi due secoli. Tutt’ora, dicono i numeri dell’Agenzia internazionale dell’energia, otteniamo dalle fonti fossili l’81% dell’energia che consumiamo nel mondo. È un enorme problema, perché ogni volta che bruciamo idrocarburi – anche quando accendiamo il fornello per farci il caffè la mattina – rilasciamo anidride carbonica in atmosfera e alimentiamo il surriscaldamento climatico.
Purtroppo però non abbiamo a disposizione soluzioni semplici. Ovunque si sta sviluppando nuova capacità di energia rinnovabile, che ottiene circa l’80% degli investimenti del settore e genera ancora meno del 2,2% dell’energia complessiva. L’Europa sta forzando il passaggio dalle auto a motore termico a quelle elettriche o a idrogeno entro il 2035. Aziende che producono materiali essenziali per la nostra quotidianità, come la plastica, l’acciaio o il vetro, stanno cercando un modo per continuare a farlo senza usare idrocarburi, o almeno azzerando le emissioni di CO2. Il disinvestimento dalle fonti più inquinanti è iniziato. L’addio al carbone si sta facendo vicino, l’abbandono del petrolio sembra un po’ più distante, mentre il gas naturale probabilmente ci accompagnerà ancora a lungo, ma non per sempre. L’uscita dall’era delle fonti fossili è un passaggio epocale per la storia dell’uomo, nessuno può pensare di completarlo nel giro di un decennio.
Non per mancanza di volontà, ma per oggettiva impossibilità tecnica. «Siate realisti, chiedete l’impossibile» è stato uno dei più efficaci slogan del Maggio parigino. Un ossimoro del ’68, oltre mezzo secolo fa. Servono parole e atteggiamenti nuovi. Hanno ragione i giovani dello Youth4Climate quando attaccano la pigrizia e la mancanza di coraggio dei governi, che disattendono sistematicamente gli impegni sul taglio delle emissioni. Sbagliano però a non vedere, o ignorare, le difficoltà tecniche della transizione ecologica e i suoi dolorosi effetti sociali sulla popolazione. Quelli del ‘bla bla bla’ non aspettano altro per elargire loro i soliti sorrisi paternalistici che gli adulti riservano ai bambini che la sparano grossa. Servono coraggio e concretezza per non uccidere i sogni.
Pietro Saccò Avvenire venerdì 1 ottobre 2021