9 Aprile 2024
Serve una Chiesa capace di “vederla”.
I risultati della ricerca promossa dall’Istituto Toniolo dalla quale è scaturita la recente serie su Avvenire «Una generazione in ricerca» aprono a una lunga serie di riflessioni. Eccone alcune
«Giovani in fuga dalla religione» era il primo titolo di questa ricerca che partiva da una constatazione oggettiva: l’accelerazione con cui le nuove generazioni hanno abbandonato e stanno abbandonando la comunità cristiana e le forme tradizionali della pratica religiosa. Il fenomeno è facilmente osservabile e non avrebbe bisogno della conferma di un’indagine. Ma quali sono le ragioni di questo allontanamento? Con quali motivazioni i giovani e soprattutto le giovani si stanno defilando dalla comunità cristiana e prendendo le distanze da essa?
L’ascolto ha aperto un orizzonte che a poco a poco ha mutato il modo con cui i ricercatori hanno considerato e poi rivisto le loro ipotesi di partenza. Innanzitutto, è apparso chiaro che dietro l’etichetta di “increduli” e di “non praticanti” c’è una molteplicità di posizioni difficilmente riconducibili a uniformità. Anche l’allontanamento è plurale nelle motivazioni, perché è personale, e ogni giovane costituisce storia a sé, originale e unica.
Rispetto all’ipotesi Dio, si possono individuare due gruppi: 1. Vi è un certo numero di giovani che si dichiara ateo o agnostico, e quasi sempre lo fa a partire dall’incontro con il pensiero scientifico. 2. In altri si va facendo strada un modo diverso di credere, rispetto a quello codificato dalla tradizione cristiana. Più che abbandono della fede, per molti si tratta di un diverso modo di credere, di un nuovo atteggiamento di fronte a esso. Molti giovani hanno abbandonato la fede che hanno ricevuto per un modo di credere nel quale sia possibile riconosce la loro sensibilità di persone di oggi e il loro desiderio di vederlo riconosciuto. La crescente consapevolezza del valore dei cambiamenti segnalati dal modo con cui i giovani affrontano oggi la dimensione religiosa della propria vita ha portato a un cambio di sguardo e alla possibilità di riconoscere in quegli allontanamenti non un disinteresse o un rifiuto ma la possibilità di una nuova ricchezza. A vantaggio della Chiesa e della fede di tutti.
L’abbandono del modo tradizionale di credere è espressione della ricerca di un’esperienza religiosa diversa, il cui cuore è costituito dalla spiritualità. È il rifiuto di una religione fatta di riti, alla ricerca di gesti autentici, in cui possa esprimersi la vita; è l’abbandono di una fede ridotta all’aspetto conoscitivo di verità puramente intellettuali in nome di un’apertura al mistero, all’invisibile, all’inspiegabile; è presa di distanza da una comunità formale e anonima alla ricerca di una comunità vitale, in cui sia possibile sperimentare relazioni calde e fraternità vera. La spiritualità è ricerca di sé, è interiorità, nella libertà e nell’elaborazione di proprie ragioni, percepite come un riconoscimento della propria dignità di persone.
La ricerca di un modo diverso di credere, condotta nella solitudine, quasi sempre senza punti di riferimento, si accompagna a smarrimento, sofferenza, nostalgia di un tempo in cui ci si sentiva supportati da un contesto comunitario. Ma l’urgenza e le ragioni di questa ricerca esigono di affrontare anche il deserto della solitudine e la tensione di confronti difficili, lo smarrimento e l’incertezza. Per molti intervistati non è possibile sottrarsi al bisogno di credere in altro modo, accettare accomodamenti rassicuranti; per molti non è possibile rinunciare a credere in qualcosa. In questo contrasto tra il desiderio di credere e la fede ricevuta si colloca il rifiuto della Chiesa, delle sue scelte soprattutto in campo morale, del modo di credere che essa propone e che appare come un ostacolo alla ricerca personale di una propria fede.
Il giudizio sulla Chiesa e sulla qualità della sua vita non è particolarmente negativo; il problema è altrove. Nel differenziale semantico proposto agli intervistati vi è la media dei loro giudizi complessivi. La Chiesa è ritenuta utile e pulita; i problemi cominciano quando si considera il rapporto che essa ha con il mondo di oggi: la Chiesa appare soprattutto vecchia, lenta, noiosa, lontana. Chiusa alla mentalità di oggi, essa non può costituire un supporto alla ricerca di un modo nuovo di credere, in un contesto sociale e culturale percepito come cupo, minaccioso, povero di speranza. L’astrattezza delle sue posizioni la rende impermeabile, secondo gli intervistati, alle domande esistenziali, quelle che urgono maggiormente.
Leggendo le interviste e i focus group si ha l’impressione di trovarsi di fronte a panorami interiori molto ricchi e vari. Dietro l’esperienza comune di un atteggiamento critico verso la Chiesa e la sua proposta e di una presa di distanza da essa vi è una molteplicità di esperienze che parlano di sensibilità personali originali e non scontate; tuttavia, collegate come da un filo rosso che riguarda la fede e il rapporto che essa può/deve stabilire con le caratteristiche culturali di questo tempo.
Gli intervistati narrano la varietà dei modi di intendere la fede che li ha lasciati insoddisfatti e delusi e che costituisce un interrogativo provocatorio per la Chiesa e le comunità cristiane di oggi.
Vorrei citare una delle espressioni che mi è parsa più amara e più forte. Una giovane afferma che nessuno le ha insegnato a pregare, ma al contrario a “recitare preghiere”. Il contrasto tra i due verbi – “pregare” e “recitare” – mette bene in evidenza l’esigenza di un’esperienza interiore che è fatta per connettersi al Mistero, all’Invisibile e per coinvolgere tutta la persona. Come avventurarsi senza una guida su un territorio così delicato e affascinante? A questa giovane è stato invece insegnato a “recitare”, un verbo che evoca un comportamento possibile anche senza partecipazione personale, una parola potenzialmente “falsa”, come quella di uno spettacolo teatrale che fa entrare in un personaggio altro da sé. (…)
Viene il momento in cui alcuni giovani – ma non solo loro – intuiscono che la fede è altro e decidono di abbandonare ciò che ritengono espressione impropria e inautentica di essa. Si rendono conto così che non sono andati a catechismo o a Messa la domenica per fede, ma perché era bello trovarsi con gli amici, così come era bello andare all’oratorio per chiacchierare con le amiche o fare la “partitella” a calcio; non era fede quella che induceva ad andare in Chiesa, ma lo si faceva perché costretti dai genitori e per far piacere alla nonna tanto cattolica; e nemmeno era fede quella che chiedeva di credere a una verità in maniera asettica, senza coinvolgere né la sensibilità né gli affetti, e spesso nemmeno le proprie scelte di vita; infine, non era fede quella che non riusciva a dare risposte convincenti agli interrogativi esistenziali, che soprattutto verso i sedici, diciassette anni si affacciano prepotenti.
I giovani hanno ricevuto in genere una formazione sui contenuti, senza significativa attenzione all’aspetto personale, al modo di credere, all’esperienza soggettiva della fede. Si può dire che nell’itinerario catechistico l’attenzione alla fides quae ha prevalso di gran lunga sulla fides qua. I giovani hanno ridotto la loro esperienza religiosa alla seconda, interpretata come uno stato d’animo, oppure ridotta a una ricerca senza bussola, a un’esperienza interiore in cui hanno trovato solo il proprio io inquieto. E tuttavia un io ricco, capace di stupirsi di fronte al bello, disponibile a lasciarsi attrarre da un mistero senza nome che avvertono dentro di sé, desideroso di non restare prigioniero di sé, ma in cerca di connessione con altro/altri/Altro. Nella solitudine delle loro ricerche i giovani sono approdati alla spiritualità, che appare loro come l’esperienza interiore in grado di coinvolgerli e di assumere la domanda di senso, di benessere e di pienezza che avvertono dentro di sé. Sarebbero disposti – molti di loro – a rimettersi in gioco, ma con una precisazione: con la fede sì, con la Chiesa no. Provocazione quasi drammatica per la Chiesa, la sua azione pastorale e missionaria. (…)
I giovani che si affacciano alla vita adulta, con entusiasmo o con timore, vorrebbero vedere che anche la fede assume tratti da adulti, che non è la continuazione un po’ più elaborata ed esigente di quanto hanno ricevuto da ragazzi, ma è un’esperienza nuova, che assume la loro dignità di persone, che li consegna a una libertà capace di dare forma matura anche al loro modo di credere, dentro un discernimento di cui è stata consegnata la grammatica, ma non tutto lo sviluppo di un “discorso” che si fa dentro l’esistenza; che riconosce loro l’autonomia di scelte che hanno la loro radice nella coscienza, che li riconosce capaci di racconti personali, in cui la fede si intreccia strettamente con una vita personale e unica.
La Chiesa è sfidata dai giovani a cambiare, ad aggiornare il suo modo di vivere, di interpretare e proporre il Vangelo. In fondo essi le chiedono soprattutto questo: essere specchio della visione della vita che il Vangelo tratteggia nei suoi valori essenziali, lasciando ai cristiani di ogni tempo e alle loro comunità il compito e la missione di reinterpretarlo, per renderlo contemporaneo. Questo non significa adattarsi a vivere secondo le mode del momento, piuttosto rimanere in ascolto della sensibilità diffusa; stabilire un dialogo con un mondo giovanile che ha antenne alzate per intuire il futuro. Nei giovani, che sono già il presente, vi sono gli indizi del futuro; guardando a loro tutti possiamo cominciare a figurarci il tempo nuovo in cui stiamo entrando. Non si tratta di assumere tutto quello che i giovani stanno dicendo o chiedendo, ma di accogliere ciò che di autentico vi è nelle loro posizioni. Occorre essere in comunicazione con loro, con stima e attenzione perché solo nel dialogo e nella libertà dello Spirito sarà possibile un onesto discernimento che indichi a tutti – giovani e meno giovani, sensibilità diffusa e cultura istituzionale – le nuove strade per la Chiesa e l’umanità tutta. (…) Il modo di credere delle persone cambia, perché cambiano le culture in cui siamo immersi. Ce la farà la Chiesa a cambiare? Ad aggiornarsi? A rispondere alle sfide di questo tempo? Le occorre superare l’idea che la crisi è un’esperienza negativa e disporsi ad affrontarla come un’opportunità, a leggere in essa il suo kairòs, il suo tempo opportuno. Allora si creeranno le condizioni di una nuova sintonia tra la comunità cristiana e il popolo di Dio, nella varietà delle sue età, delle sue condizioni di vita, delle sue attese. Allora sarà più chiaro che i giovani, nella loro silenziosa protesta, stanno segnalando alla Chiesa che questo è il suo kairòs! Il tempo della visita di Dio!
In Avvenire di venerdì 5 aprile 2024