
Intervista. Manzini: quella vedova del boss che pregava Maria per vendicarsi
30 Agosto 2020
Enrico Lenzi giovedì 20 agosto 2020
A colloquio con il procuratore aggiunto di Cosenza
Marisa Manzini, procuratore aggiunto di Cosenza – Cortesia
«In una intercettazione per un omicidio di ’ndrangheta, si sente la vedova di un boss ucciso chiedere alla Madonna di aiutare i suoi figli a individuare i killer del marito per poter poi procedere nella vendetta. Una preghiera vera, come se si stesse chiedendo una grazia». È un racconto che sconcerta quello che Marisa Manzini, procuratore aggiunto di Cosenza, ci fa per far comprendere a quale distorto senso religioso si sia arrivati all’interno della criminalità organizzata. La dottoressa Manzini è uno degli esperti che parteciperanno al Dipartimento promosso dalla Pontificia accademia mariana internazionale (Pami).
Dottoressa, ci troviamo, dunque, davanti a una “religiosità” piegata al
crimine?
In effetti l’ndrangheta, realtà criminale su cui da tempo svolgo indagini,
“scimmiotta” molto nei propri riti, quelli legati alla Chiesa cattolica. Riti
stravolti e uso di termini liturgici e sacramentali, come “Battesimo”. E anche
all’interno della comunità si mostra grande attenzione alla religiosità
popolare, ma per usarla come leva sulla popolazione e godere di un clima
omertoso, se non addirittura connivente.
Rientrano in quest’ottica le intromissioni nelle processioni devozionali
molto popolari al Sud e anche i famosi “inchini” davanti alla casa del boss?
Ci sono vere e proprie lotte di potere tra i clan per riuscire a gestire queste
processioni. Poter portare in spalla la statua della Vergine o di un santo
patrono sono segni di potere e nello stesso tempo danno la sensazione alla
popolazione che vi sia una vicinanza ai valori religiosi del territorio. Si
comprende allora il rito dell’inchino fatto davanti alla casa del boss di
turno. Ma, come detto, non è affatto vicinanza alla religione. Solo una leva
per incunearsi nella società
Da qualche anno si è alzata forte e chiara la voce dei vescovi contro
queste “deviazioni”. Dal suo osservatorio ha notato cambiamenti?
Dobbiamo riconoscere l’importanza di quei pronunciamenti e anche delle forti
parole del Papa che ha parlato di scomunica per i mafiosi. Certo la Chiesa deve
compiere ancora qualche passo, ma delle differenze rispetto al passato si
notano.
Ma perché usare la religione per creare “consenso” attorno?
Proprio perché al Sud il legame con la Chiesa è molto più forte che al Nord. Il
parroco è ancora una autorità nel paese. Ma si badi bene: da parte
dell’ndrangheta l’uso della religione è soltanto strumentale, è un’occasione
per ottenere benevolenza dalla gente, con una grande capacità di falsificare le
reali intenzioni.
Però spesso nei nascondigli dei latitanti arrestati vengono trovati veri e
propri altarini. Come se lo spiega?
Accanto allo sfruttamento del senso religioso della gente, c’è anche una
distorta religiosità dei mafiosi stessi. Il caso della vedova che prega la
Madonna perché i figli trovino i killer del marito e facciano vendetta è uno
dei tanti casi che nella nostra attività investigativa ci siamo trovati
davanti.
C’è qualche responsabilità della Chiesa?
Purtroppo qualche caso di sacerdote troppo vicino alla mafia lo abbiamo
incontrato nelle nostre indagini.
Un esempio?
Un sacerdote di Limbadi, patria del clan Mancuso, è stato intercettato mentre
chiedeva alla moglie del boss aiuto per la campagna elettorale di suo nipote in
un comune limitrofo. Ma non è sempre collusione. A volte è paura. E c’è anche
chi si giustifica dicendo che il suo compito “è di essere il pastore di tutti i
figli di Dio”, ma questa vicinanza ai boss può essere percepito dalla
popolazione come una sorta di benedizione. Per fortuna da tempo il clima sembra
essere cambiato.
Come può aiutare concretamente il lavoro che vi apprestate a fare nel
Dipartimento della Pontificia accademia mariana internazionale?
Per me è un onore essere stata chiamata a farne parte. Penso che il confronto
tra persone che partono da differenti esperienze e ruoli possa aiutare molto a
creare una cultura che liberi la figura della Madonna dai lacci mafiosi.
Confrontarsi su tutti gli aspetti che strumentalizzano Maria, ma soprattutto
parlarne alle comunità, ai giovani per renderli più consapevoli delle
distorsioni religiose che vengono compiute. In una parola: creare una cultura
che tolga terreno fertile alla criminalità organizzata.